giovedì 17 aprile 2025

“ATTITUDE”

FABRIZIO PATERLINI TRASFORMA IL GRUNGE IN POESIA PER PIANOFORTE

And he who forgets

Will be destined to remember…

Nothingman è uno dei brani più conosciuti e iconici dei Pearl Jam, la voce possente di Eddie Vedder, la chitarra acustica che scandisce la fine di un amore. Non c’è violenza, possessione, strazio, solo un consapevole… nulla e quella frase che suona come un anatema biblico, chi dimentica sarà destinato a ricordare.

Nothingman è il brano che apre il nuovo lavoro discografico di Fabrizio Paterlini, Attitude, uscito il 21 marzo scorso per la Memory Recordings, casa discografica fondata dallo stesso pianista alcuni anni fa. Sette brani per 22 minuti d’ascolto in piano solo impiegati per “riassumere” strumentalmente e sentimentalmente il Grunge, genere con cui il pianista mantovano è cresciuto, capace di interpretare e raccontare meglio di tanti testi sociologici il disincanto dei giovani usciti dall’edonismo degli anni Ottanta, attraverso chitarre strazianti, ritmi sbilenchi, ballad da suicidio. Il Grunge, che tradotto dallo slang a stelle e strisce identifica la trasandatezza, la sciatteria, ha lasciato un segno indelebile nella storia della musica moderna, diventando Attitude, un atteggiamento che ha coinvolto cultura, moda, energie, ma anche Aptitude, un talento, una nuova via per il futuro del Rock.

Il senso del lavoro di Fabrizio, cresciuto a conservatorio (classico) e Grunge, è un invito a riascoltare i brani della sua giovinezza ripresentati fedelmente con la concretezza e la passione di un pianista classico/crossover. Può sembrare una provocazione, invece è un gran bell’omaggio, serio e amorevole, verso band e artisti che sono stati i protagonisti di questa “nuova via del Rock”, dai Nirvana di Kurt Cobain (All Apologies) ai Pearl Jam di Eddie Vedder (Nothingman), dai Soundgarden di Chris Cornell (Black Hole Sun) agli Alice in Chains di Layne Staley (Nutshell). C’è posto anche per tre brani grunge italiani: Lieve dei Marlene Kuntz, Labyrinth di Elisa e Angie dei Verdena.

L’Attitude di Fabrizio Paterlini è essere riuscito ad arrivare all’essenza di questo genere musicale. Dritto al cuore per narrare, da testimone, un’epoca. L’eredità del Grunge è chiusa tutta lì in quei 22 minuti. Penserete che sto esagerando, ascoltate attentamente il disco e capirete il perché. Un consiglio: prima di dedicarvi ad Attitude andatevi a riprendere i pezzi originali, capirete il puntuale lavoro fatto da Fabrizio sulle partiture. Vi verrà spontaneo ritrovare in Nutshell la voce acuta e straziante di Staley, in All Apologies, la performance di Cobain, in Labyrint la raffinatezza della voce di Elisa.

Ho chiamato Fabrizio per intervistarlo e siamo finiti a fare una lunga chiacchierata sulla musica, dai Pink Floyd, la sua band preferita, al Rock, al Grunge, alla musica attuale…

Fabrizio perché un focus così dettagliato sul Grunge?

«Ho vissuto i miei 20 anni ascoltando Nirvana, Pearl Jam, Soundgarden. Così mi son detto: perché non provare a raccontare un po’ di me, soprattutto dal punto di vista musicale, non solamente attraverso quello che si vede sui social, ma portando la mia esperienza di quando ero ragazzo e dei brani con i quali sono cresciuto? L’ho fatto decidendo di mettere il tutto nel mio strumento d’elezione che è il piano solo. Una buona idea per far conoscere una parte di me al mio pubblico».

Da ragazzo hai suonato anche in gruppi rock, ovviamente!

«Quando hai 16 anni e vuoi diventare famoso con una band, fare la rockstar, non pensi a vie di mezzo. E quindi sì, suonavamo queste canzoni, ma anche quelle dei Deep Purple, dei Pink Floyd, quindi sicuramente il Rock l’ho vissuto anche sul palco oltre che in cuffia». 

Ho ascoltato Attitude, è un tuo modo di dimostrare che, nonostante chitarre distorte, apparenti dissonanze, sotto sotto c’era ottima musica?

«Esatto. È un tentativo di offrire uno sguardo diverso su un genere che comunque è estremamente emozionante, valido, diretto, usando uno strumento diverso dalle chitarre ma che comunque, secondo me, mantiene tutta quella vibrazione e quell’intimità. Anzi, in certi casi la esalta… Quindi sì, è stato un tentativo di traslare l’energia del Grunge in una dimensione più intima, mantenendone quell’urgenza emotiva. È un tentativo di dimostrare che il pianoforte può essere grunge!». 

Ci sono brani nati come acustici, vedi Black Hole Sun dei Soundgarden o Nutshell degli Alice in Chains, che sembrano scritti per pianoforte… Ma anche Elisa, ora vista come cantante pop, nel suo primo periodo era Grunge, lo dimostra Labyrinth!

«Ho inserito quel brano per un motivo ben preciso: quando ero ragazzo di artiste italiane che si avvicinavano al Rock di Seattle ne esistevano poche, all’estero invece c’erano nomi pesanti, vedi Alanis Morissette o PJ Harvey. Elisa s’è presentata al pubblico con Labyrinth, singolo estratto da Pipe and Flowers, album uscito nel 1997 dal forte respiro internazionale, dove esprimeva un’estensione vocale mostruosa che mi aveva colpito molto».

Mediamente, poi, le lunghezze dei pezzi seguivano quelle delle varie dinastie del Rock di quegli anni, attestandosi sui 4, 5 minuti di durata media. Tu ne hai fatto un concentrato…

«Riproponendo questi brani in versione strumentale, l’andare a ripetere la linea melodica due o tre volte assecondando il cantato allentava quell’urgenza emotiva che volevo mantenere. Inoltre, lo scopo di questo progetto è quello di cercare di condensare il minutaggio rendendolo più accessibile ai ragazzi e al grande pubblico disabituato ad ascolti lunghi (ti ricordo che oggi la soglia d’attenzione media su un brano è di sette secondi!)». 

Sei cresciuto con il Grunge dei Nirvana, dei Soundgarden, dei Pearl Jam, io con la psichedelia dei Pink Floyd e il prog di Genesis, King Crimson, Yes, ELP. In entrambi i casi si trattava di musica che richiedeva soglie d’attenzione maggiori. Non trovi che la semplificazione, probabile figlia dei social, sia troppo esagerata?

«Aspetta! Anch’io sono cresciuto con i Pink Floyd, a tutt’oggi è il mio gruppo preferito in assoluto!Mi sono consumato decine di musicassette con i loro album. Oggi un pezzo come Echoes, suite di 23 minuti, sarebbe improponibile. Il rischio è che la musica sta diventando sempre di più un contenuto – parola odiosa dal mio punto di vista – sta perdendo la sua unicità. Ti faccio un esempio: quando decido di pubblicare un album di solito inserisco 12, 14 brani originali. Questi sono il risultato di una attenta scrematura tra 60-70 brani, perché per me il disco continua a essere ancora “l’opera somma”. Questa continua richiesta di contenuti traslata anche nella musica porta gli artisti a sfornare singoli in quantità industriale… ma così è impossibile mantenere uno standard qualitativo alto. Nella mia estetica, se scrivo venti brani, solo cinque sono decenti. Se accettassi la richiesta avida dello Spotify o dell’Apple Music di turno che vorrebbe che io producessi ogni settimana, la pagherei cara perché per starci dietro sarei costretto a pubblicare anche i b-side, i famosi scarti. Immagina tutto quello che ti sto dicendo applicato a milioni e milioni di brani: il risultato è un appiattimento progressivo perché per un compositore è impossibile creare sempre il The Dark Side of the Moon. Se va bene, ti capita una volta ogni quattro, cinque anni».

Eppure ci sono molti artisti bravissimi ma fuori dai radar. Questo è un grande problema…

«La situazione è difficile. Mi reputo fortunato ad avere iniziato la mia carriera quando ancora non esisteva quest’onda insaziabile di contenuti sempre nuovi. Bisogna trovare un compromesso, complicato, tra il poter campare e il potersi esprimere artisticamente in un certo modo. Tutto parte dai social e io non sono molto bravo con i social… sono un musicista, passo il tempo a posizionare i microfoni sul pianoforte per trovare il suono perfetto, quando la gente ascolta musica con il cellulare. Sono fuori dal tempo, per fortuna ho avuto la mia musica che ha attirato le persone e non i video che altrimenti avrei dovuto fare su TikTok».

Hai già iniziato il tour di questo disco?

«Sì, però farò poche date: mi sono preso il 2025 come un anno di riorganizzazione della mia proposta e del mio modo di lavorare, soprattutto sui suoni. Ho del materiale nuovo bellissimo che vorrei pubblicare alla fine del 2026. Il prossimo anno ho già date fissate in Belgio, Olanda e Germania. Quest’anno invece dovrei avere a giugno una data a Milano e a luglio in Polonia.

Mi riallaccio al tuo lavoro sui suoni… cosa intendi?

«Se dovessi ascoltare chi mi segue dovrei produrre ogni anno un album di piano solo perché, fondamentalmente, sono conosciuto per quello. Prendi Attitude, è un piano molto particolare dove il suono è lavorato molto. Il prossimo progetto, anche per una mia necessità di nutrimento personale sarà diverso. Sto lavorando molto con l’elettronica e con un duo violoncello/violino. Insieme interagiremo in tempo reale creando delle frasi su cui andremo a lavorare. Come vedi è un progetto nuovo, che già so, mentre lo sto facendo, che per il mio pubblico non avrà un appeal particolarmente alto. Ho la grande fortuna di essere un indipendente, non ho un manager, ho sempre fatto tutto da solo, voglio avere la libertà di dire: “non mi interessa se il prossimo lavoro non sarà un grande successo commerciale, però è propedeutico per poter tornare al piano solo rinnovato”, altrimenti il rischio di ripetersi è altissimo, capisci?».

Perciò ti sei creato una casa discografica, la Memory Recordings?

«L’ho fondata nel 2016, accompagna i miei lavori e contemporaneamente promuove e produce ragazzi, soprattutto italiani, che si avvicinano a questo mondo. Io do loro qualche dritta. Con me sono tranquilli perché sanno che campo della mia musica e, quindi, non voglio approfittarmi. È tutto trasparente, metto a disposizione la mia piccola rete di contatti che mi sono fatto in questi anni per cercare di dar loro un po’ di spazio nel mondo artistico».


 

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