(fonte Tgcom)
Nicolò Piccinni è un musicista torinese di 36 anni. Dalla sua ha la profonda capacità di tirarti dentro i suoi pensieri, di coinvolgerti nei suoi voli pindarici che portano sempre da qualche parte. Sarà che ha fatto teatro sin da bambino, sarà la sua bravura nel recepire quello che succede attorno lui per poi metterlo in versi e musica, sta di fatto che è uno degli eredi più genuini del cantautorato che fu. Alcuni mesi fa ha prodotto assieme alla sua band, gli Internauti, e autopubblicato, mareAmare, un concept album che include anche un libro di suoi racconti con le illustrazioni di Sara Zollo edito da Morsi.
Protagonista di questo lavoro è il mare, inteso non tanto nell’accezione romantica di stupore, di meraviglia, quando in quella cupa, buia delle profondità marine. Quella “A” maiuscola nel titolo ha la funzione di specchio, ma anche, se vista come alpha privativa, come il mare e la sua antitesi. Il tema del mare si lega a due vasti oceani, quello digitale e quello delle profondità dell’anima. Corrono paralleli ma inevitabilmente si intersecano. La profondità fa paura, ma se non scavi, ricerchi, ti spingi oltre i tuoi fantasmi, riesci a vedere nitido te stesso, la tua vita e quella degli altri. Il mare digitale è periglioso, attrae ed è facile annegarci dentro. Ci vorrebbe una solida scialuppa per non annegare. La scialuppa è la cultura, la conoscenza che ti permettono di non andare alla deriva o, peggio, di annegare.
Nei dodici brani, che poi si espandono nei dodici racconti del libro, Nicolò ha scelto di cantare assieme ad altre voci, in mare meglio non andar da soli! Con lui Liana Marino, Stefania Tasca, Rossana De Pace, Giulia Impache, Bunna, Fausia, Federico Sirianni, VEA, Boris Borasco. Il risultato è un lavoro fatto bene, che trasmette emozioni e fa pensare, con una musica mai banale, bene arrangiata. La speranza che si possa invertire la deriva delle canzoni usa e getta, fatte a tavolino, scialbe e tutte uguali.
In Sottacqua, con Stefania Tasca, Nicolò canta: sulla terra battono mani/ come fossero onde, ma tu non puoi danzare/ se nasci sasso e la vita ti costringe marinaio/ quel che devi fare è solo affondare. Mentre in Aldiqua, brano con un elegante basso reggae, assieme a Bunna e Giulia Impache ragiona sull’integrazione: gli ultimi di ieri sono i primi/ ad odiare/ chi cerca di passare più in là/ Siamo tutti uguali nell’aldiqua. Il brano Internauta, dove Fausia e Nicolò fondono le loro voci (il ricordo di Ivan Graziani qui è nitido) attaccano con: l’internauta che è in me/ beve troppo caffè/ è sempre connesso/ non trova più il senso/ non ricorda più niente di me/ pensa di navigare ma si sbaglia perchè/ c’è puzza di mare, ma il mare non c’è. Lampade ad olio, un blues sporco da manuale con Federico Sirianni, VEA e l’armonicista Boris Borasco è l’occasione per Nicolò di narrare l’abisso dell’amore: sarà passato forse il tempo/ delle lampade ad olio e il nero delle processioni/ ma io mi trovo al tempio del vino versato/ a dire allo straniero che lei non torna/ e ancora non se n’è andato/ e ancora non se n’è andato/ e tu credi di essere l’unico/ e tu credi di avere bevuto/ con il rosso sporco il tuo sorriso/ con il bianco cerco il paradiso/ la tua bella non passerà di qui…
Raccontami quest’operazione poliedrica. Dodici brani per dodici racconti…e altrettante illustrazioni!
«Faccio teatro fin da quando ero un bambino. È stato da sempre il mio gioco! Nel tempo mi ha portato a mettere idee in forma scritta per poi collocarle in scena, a usare la voce, il canto e a ricorrere anche alla musica. A casa, poi, sono sempre stato abituato ad ascoltare di tutto e da tutto il mondo, molti cantautori italiani, e poi jazz, blues, rock anni Settanta. Per me, teatro, scrittura, musica sono più forme di uno stesso gioco. Per pura coincidenza sono uscite tutte e tre in questo concept album, complice anche la pandemia: l’essere stato fermo per qualche anno mentre stavo lavorando al disco mi ha dato modo di pensare ad altre strade per esprimere i concetti che sono alla base di mareAmare».
mareAmare non è solo un gioco di parole…
«Quella “A” maiuscola tra i due mari minuscoli rappresenta la distinzione – o comunque la convivenza – tra la realtà concreta e la realtà virtuale. In quel titolo c’è già riassunto anche graficamente il succo della faccenda».
Che poi espliciti nel corso dei brani…
«È un album su cui ho iniziato a lavorare tra il 2017 e il 2018. Mi sono reso conto che alcune canzoni che avevo scritto per prime parlavano del mare, pur essendo io torinese, quindi abbastanza distante da quel mondo. Noi piemontesi abbiamo un rapporto strano col mare, quella “roba” scura che fa un po’ impressione, che affascina e spaventa allo stesso tempo. Gli ultimi brani, all’epoca, parlavano invece dell’assenza e del desiderio del mare, di cercare di raggiungerlo in qualche modo. Mi sono reso conto che questo non-mare era nella realtà il mare di Internet. Mi sono ritrovato, quindi, a dividere i brani, formando così i due lati del disco, il mare digitale e il mare concreto, che invece è decisamente cupo, portatore di ambiguità, di enigmi, anche di visceralità, terra scura, profonda, dove rischi di perderti nella tua ricerca».
Hai lavorato prima sulla musica e poi sui testi?
«Spesso nascono insieme, perché nell’intuizione melodica ci sono già dentro sia le note sia alcune parole. Mi capita raramente che venga fuori prima il testo e poi la melodia; in quest’album nessuna delle canzoni è stata scritta così. Qualche volta, poi, nasce musica e rimane musica. C’è un brano strumentale nel disco, Pesce nero. È stato difficile inserire un testo a posteriori perché è nato come un movimento musicale».
Leggo i titoli dei brani. Nel “lato A”, Superficie, ci sono Arianna, Sottacqua, Cura di te, Aldiqua, Internauta, 11 anni dopo. Il “lato B”, Profondità, invece parte da Malladrone e passa a Il Pozzo, che simboleggia la profondità, l’ignoto, la cosa in cui si butta dentro ogni cosa, il peggio di Internet, della rete… Cosa c’è dentro quel pozzo?
«Dovresti dirmelo tu, perché le le cose che hai elencato finora mi piacciono moltissimo. Sì, Il pozzo è un simbolo, sono molto attratto dai simboli. Il pozzo racchiude un po’ tutto questo, come se fosse un buco nel quale è impossibile vedere se contiene qualcosa di estremamente essenziale alla vita come l’acqua, oppure se è solo oscurità, profonda e imperscrutabile. Il “lato B” è la ricerca di quella profondità, mentre “il lato A” è lo stare in superficie e il desiderare di andare in profondità. Pensiamo anche a Internet, il navigare sulla superficie di questi schermi piatti, in modo sempre più raggiungibile e portatile, porta al desiderio, al bisogno di profondità. Ci capita ogni tanto di dire: “Vorrei andare più a fondo nelle cose”. Però a volte quel voler andare a fondo, spesso nei sentimenti, nelle emozioni che proviamo, è rischioso. Non sai che cosa puoi trovare, ognuno può incontrare quello che più teme, o anche quello che più ama. Chissà».
Mi racconti degli Internauti, i tuoi compagni di viaggio?
«Siamo amici di vecchia data, abbiamo tutti più o meno la stessa età, nati verso la fine degli anni ’80 e inizio anni ’90, cresciuti musicalmente in un ambiente torinese di periferia, in realtà molto viva, in un posto che si chiamava Centro Dentro, luogo di aggregazione giovanile dove potevi imparare a suonare, praticamente gratis, in certe situazioni e condizioni. Abbiamo dunque imparato a suonare insieme, magari non tutti nella stessa band, ma giravamo comunque tutti in quel in quel mondo, eccetto uno, Federico Bertaccini, il fonico, il sound engineer della situazione. Gli altri Internauti sono Francesco Cornaglia alla batteria, Gabriele Prandi alle chitarre, Michael Pusceddu al basso. E poi c’è Enrico Cantamale, il cui vero nome è Angelo Mossi, un cantautore, che ha suonato chitarre e sinth. Il nome Internauti è legato al disco: una delle canzoni che ho scritto e che mi ha portato ad approfondire l’idea di fare un concept album è proprio Internauta. Da lì ci è venuta l’idea di dare un’identità alla band».
L’idea del libro è nata contemporaneamente al disco?
«No, il libro è arrivato dopo. Abbiamo cominciato a lavorare all’album tra il 2017 e il 2018. Abbiamo messo in moto le canzoni nel corso del tempo facendo tour, suonandole in giro in vari modi. Poi, nel 2020, con lo stop obbligato dalla pandemia, abbiamo messo in pausa il disco, dedicandoci ad altri progetti. Sempre con gli Internauti ho pubblicato un altro disco, Autrement, uscito nel 2021, il primo pubblicato ufficialmente con la band, anche se scritto successivamente. Quindi abbiamo ripreso in mano mareAmare, rilavorando le tracce. È qui che mi sono reso conto che quelle canzoni erano più ampie di quello che pensassi, i simboli presenti nei brani mi stavano richiamando altri personaggi, altre situazioni. Ho deciso così di seguire questo istinto provando a sviluppare quelli che poi sono diventati i racconti scritti in prima persona per dodici personaggi differenti…».
Dunque si tratta di racconti sganciati dal disco, anche se fanno parte di un unico progetto…
«Si completano, ma possono essere fruiti in modo indipendente. Però, se si uniscono, si ha una percezione diversa di uno e dell’altro. C’è un terzo piano di lettura: i racconti sono illustrati da un’artista fantastica, Sara Zollo. Sono una sintesi visiva del racconto e della canzone».
Nel brano Aldiqua c’è anche Bunna!
«È stata una partecipazione sognata… ed esaudita! Dopo che ho scritto i racconti sono ritornato alle canzoni, rendendomi conto che avevano bisogno di altri punti di vista che non fosse solo il mio. Così ho pensato di coinvolgere artiste e artisti che hanno impreziosito in modo determinante tutto l’album. In ogni canzone c’è un featuring diverso, addirittura in Aldiqua ce ne sono due, Giulia Impache e Bunna. È un pezzo spartiacque, il simbolo del confine, il passare tra un uno spazio e un altro. Il brano parla del brutto rovescio di quando l’integrazione non avviene nel modo corretto. Penso ai miei parenti: come dire, sono un vero torinese, nel senso che sono per metà calabrese! Una parte di me chiaramente ha un’origine che conosce bene la la migrazione e anche la discriminazione che ha vissuto qui a Torino. Una volta che passi oltre il confine ed entri in questo al di qua dove desideri essere integrato, c’è il rischio che l’integrazione diventi cieca e sorda, dimenticando la sofferenza che tu stesso hai passato, riversando questo dolore su chi il confine lo passa ora. È un meccanismo classico dell’essere umano. Sentivo di avere il bisogno di una voce che avesse in sé un bagaglio, una profondità tale da poter raccontare quel passaggio, così ho pensato a Bunna, e lui lo ha fatto con partecipazione e con piacere».
Che ruolo ha il cantautore oggi?
«È una domanda estremamente complessa, ma forse prima di questo Sanremo ti avrei detto in modo molto pessimista e tragico che ormai il suo esistere era praticamente finito. Invece l’aver visto che sul podio, per quanto ci siano stati, ahimè, solo uomini, tra i primi tre c’erano delle voci che parlavano di fragilità, di una possibile, diversa visione del mondo, mi sono rinfrancato. È stato di conforto, lo dico sul serio! Vedere due cantautori come Brunori e Corsi mi ha riscaldato cuore».