lunedì 3 marzo 2025

MUSICABILE

BANCO DEL MUTUO SOCCORSO: “STORIE INVISIBILI “

Esce oggi sugli scaffali digitali e fisici Storie Invisibili, l’album che chiude la trilogia dedicata all’esistenza umana del Banco del Mutuo Soccorso. Il Banco è il Banco, per quelli della mia generazione una delle band dirimenti del Rock progressive italiano. Ricordo che da ragazzi BMS era un “ascolto obbligato” oltre ai Genesis, agli Yes, ai King Crimson, alla PFM e alle Orme, visioni di mondi fantastici, impegno e bravura nell’esecuzione di una musica felicemente complessa e impegnata nel raccontare l’evolversi della società di allora. 

Oggi, in tempi dove le ideologie sono sparite e il mondo iperconnesso e ipertecnologico conta macerie e ferite ovunque, l’unica ideologia rimasta è l’individualismo spinto. Anche la musica come tutte le arti, ne risente. Un discorso che su questo blog abbiamo affrontato più e più volte.

Scrive Vittorio Nocenzi, l’anima fondante del Banco, parlando della trilogia e della situazione attuale: «La poesia e la musica possono (preferirei dire devono) anche condannare quello che non si condivide! Sicuramente tutto questo non cambierà la realtà delle cose in modo diretto, ma può far circolare un’idea diversa da quelle programmate e diffuse dal sistema globale…». 

L’impegno dell’oggi per il Banco sono dodici storie di uomini e donne normali. «Persone che non avranno mai una statua equestre come Marco Aurelio, Giulio Cesare o Garibaldi, uomini e donne che sperano, sognano, vivono». Vittorio che ha composto assieme al figlio Michelangelo le musiche e a Paolo Logli i testi sa bene dove e come andare lungo queste strade dissestate. In Non sono Pazzo il cantante della band Tony D’Alessio canta: Guarda nello specchio t’hanno prezzato/ come fossi un prodotto liofilizzato!/ Ma dimmi sei sicuro che questo è quello che vuoi?/ Essere contro non è una sfilata di moda,/ per cambiare il mondo non basta l’autotune!!!/ Su questo lato stretto del fiume ci vive gente che sa volare…/ Non ha bisogno di ali griffate, sa immaginare!

In queste storie, istantanee di vita, c’è posto per L’ultimo moro dell’Alhambra, un arabo vissuto ai tempi della Reconquista spagnola che viene cacciato dall’Andalusia, casa sua e dei suoi avi da secoli, perché qualcuno ha deciso che improvvisamente è diventato uno straniero e non può più stare lì. Chi l’ha detto che io sono uno straniero?! Chi decide che io sono diverso, io/ E che devo andare via?/ Invece io resto qua! Certo che io resto qua! Altra Polaroid, Sarà Ottobre: il ragazzo che cammina lungo la Neva in una San Pietroburgo fredda e bianca, pieno di aspettative e speranze per quello che sta accadendo, anche se si sta già accorgendo che il nuovo sarà come il vecchio, il popolo resterà comunque senza libertà: Non era un bel domani,/ là davanti a noi, soltanto un altro zar/ ma con cento teste!/ La stessa arroganza come sempre…/ Ma i nostri sogni gridano ancora!/ Sono gli stessi di quell’ottobre laggiù!/ C’ero anch’io quel giorno/ C’eri tu vestita di follia!

La sfida del Banco in questo ultimo album della trilogia è la capacità di aver saputo rinnovarsi nei testi e nella musica senza minare l’anima della band, che rimane comunque riconoscibile. Non troverete lunghe o mini suite, penso alla splendida L’Evoluzione, che apre il mitico Darwin! del 1972, 13 minuti e 59 secondi, o alla spettacolare Il Giardino del Mago dall’album che porta il loro nome, addirittura 18 minuti e 28 secondi. Non ci sono cambi di tempi improvvisi, dialoghi tra strumenti. Qui il tempo dei brani è minimalista, essenziale, contingentato, voluto e studiato nei minimi particolari, in linea con l’idea di un ritratto che deve essere incisivo quanto fugace. I Nocenzi hanno adottato la forma canzone come modello da applicare alle 12 storie. Operazione che risulta molto convincente e forte nel suo significato.

Non potevo non fare una chiacchierata con il leader del Banco. Vittorio è stato un fiume in piena, s’è parlato di globalizzazione, di anima, di necessità di lottare, diventare partigiani del Terzo Millennio per rivendicare «l’essere umano e la sua meravigliosa unicità»… 

Vittorio, siamo alla fine di questa trilogia ed è stato un bel cammino: dalla Transiberiana alle Forme dell’Amore e, ora, le Storie invisibili. Pubblicare un disco così è una scelta forte, in controtendenza…

«Siamo sempre stati dei bastian contrario, siamo nati proprio per il bisogno di uscire dai cliché, dai canoni scontati, ho sempre fermamente creduto che ci sia bisogno di punti di vista diversi per avvicinarsi alla verità delle cose. Se tutti quanti continuiamo a guardare dallo stesso canocchiale non la scopriremo mai». 

Nella precedente intervista, quando uscì Le forme dell’Amore, mi parlasti della tua rinascita a proposito della trilogia in divenire…

Il 2015 per il Banco è stato un annus horribilis. C’era stata la perdita di Francesco Di Giacomo un anno prima, poi quella di Rodolfo Maltese, poco dopo io che mi becco l’emorragia cerebrale… sembrava che il nostro percorso dovesse finire lì. Invece ho deciso di proseguire, mi ha motivato una pressione umana, morale, emotiva fortissima da parte dei fan che mi dicevano: “Vittò, dovete continuare, non possiamo rinunciare ad ascoltare la vostra musica”. Ho sentito il dovere di andare avanti, perché spesso ci dimentichiamo che incassiamo crediti che poi vanno onorati, dovevo ricambiare l’affetto, la stima, facendo proseguire la storia del Banco».

Una valida motivazione!

«Determinante! Con la convinzione che, se i due compagni di vita che se ne sono andati così presto fossero vissuti di più, saremmo ancora sul palco tutti insieme. Nei concerti presento sempre i musicisti della band, quelli della formazione attuale, e quelli che non si vedono ma stanno lì, Francesco e Rodolfo. Ogni volta viene giù il teatro… è questo l’affetto per noi».

Quindi la trilogia è stato un proseguimento naturale del cinquantennale lavoro del Banco?

«Mi sono domandato: Ma perché non scriviamo su questa esistenza umana così inafferrabile, spesso dolorosa ma anche così meravigliosa? Dopo un dolore indicibile – il destino mi aveva tolto due compagni di viaggio dopo 40 anni – la vita mi ha offerto una meravigliosa rivelazione: ho scoperto che il mio terzo figlio, Michelangelo, è il mio alter ego musicale completo! Mi ha fatto ascoltare quello che stata scrivendo e, francamente, sembrava che lo avessi scritto io qualche istante prima. Il sentirlo così vicino mi ha fatto venire voglia di metterci le mani sopra per ampliare ulteriormente il suo lavoro, evolverlo. Ci siamo così ritrovati a scrivere musica a quattro mani come se l’avessimo sempre fatto! È stato un fantastico regalo del destino che mi ha ricaricato dandomi forza, emozioni, determinazione, creatività. Poi è arrivato il secondo dono: ho scoperto che la stessa affinità di scrittura che avevo con Francesco Di Giacomo ce l’ho con un amico legato al Banco da trent’anni, lo scrittore Paolo Logli. Con entrambi ho lo stesso metodo di lavoro, al di là dell’affetto, il punto più importante per chi fa un mestiere come questo». 

Musica e testi sono cambiati infatti. È una decisione voluta?

«Quando una artista parte con un progetto, deve mettersi dei paletti precisi e imprescindibili. Quindi come Banco non dovevamo fare il verso a noi stessi, ma porre all’interno del nostro lavoro innovazioni testuali e timbriche, rimanendo allo stesso tempo immediatamente riconoscibili. Un compito non facile perché devi restare te stesso cambiando. Penso che ci siamo riusciti, prendendo non solo temi, ma anche sonorità contemporanee, rimanendo sempre il Banco». 

Come vi siete mossi?

«Ogni tanto facevo delle sedute con i nostri fan più sfegatati, lo zoccolo duro, dei talebani (ride, ndr)!, quelli che ti vorrebbero vedere mummificato, immobile come quando avevi 20 anni. Il riscontro che ho avuto gradualmente, step by step, era incoraggiante. È stato un periodo intenso di lavorazione, però sono convinto che un artista deve avere, come dicevo prima, un’attenzione etica nel proprio lavoro. E poi, caro Beppe, ci sono altri convincimenti: questa globalizzazione non persuade più neanche se stessa, nemmeno quelli che l’hanno inventata e perseguita. Non lo vedi che l’idea del mercato unico è in crisi, si ricomincerà con i dazi, con i confini nazionali, con le fortezze geografiche…».

Perché si è arrivati a tutto questo?

«Perché è stata dimenticata la cosa principale, e cioè che noi non siamo soltanto dei conti correnti, ca**o! Siamo sempre e soprattutto anime, e per anima non intendo la definizione teologica. Siamo sogni, pensieri, ideali di riferimento, visioni, prospettive, progetti, ideali. Questa è la parte più importante della nostra vita, che non si può ignorare – o peggio scavalcare – come ha fatto questa globalizzazione voluta dalla finanza». 

Ci sono troppe distorsioni sociali… Vedi anche…

«…Scusami se ti interrompo, ma fammi sfogare Beppe! Ogni giorno accendi la televisione guardi uno dei tanti telegiornali e vedi che esiste soltanto la cronaca nera. Poi partono le news terribili sulle due guerre. Magari le notizie qui hanno un senso, ma subito dopo che mi hai ucciso moralmente con le visioni di stragi di innocenti, di bambini avvolti in bende bianche, morti sul lavoro, stupri, violenze sulle donne, vecchi ammazzati per i soldi della pensione, madri che si seppelliscono bambini non voluti… ma ci sarà pure qualche altra cosa da riportare? Ah già, dimenticavo le calamità climatiche… Non si può tirar fuori almeno una notizia buona? No! È evidente che c’è una volontà in questo agire. Ti costruiscono un mondo che esiste, ma non è l’unico. La responsabilità è di chi gestisce l’informazione, o sbaglio? Quindi, penso che dobbiamo attrezzarci per promuovere una resistenza partigiana del Terzo Millennio volta a rimettere al centro di questa narrazione nefasta l’Individuo, l’essere umano e la sua miracolosa unicità».

La vostra parte l’avete fatta con questa trilogia. Storie invisibili è il disperato richiamo all’attenzione di chi non ha voce o sbaglio?

«Non sbagli! Sono dodici storie di persone comuni. Mi piaceva passare dal particolare all’universale, perché ognuna di queste vicende diventa un racconto metaforico di una parte della contemporaneità. Mettiamola così, sono dodici istantanee, come delle Polaroid, utilizzate per raccontare attimi di vita vera di uomini e donne in cui tutti noi possiamo ritrovarci. Sono quelle persone i cui nomi e cognomi non compariranno mai sui libri della storia, né verranno loro dedicati monumenti equestri, ma che ci rappresentano profondamente. E poi mi piaceva anche mescolare episodi di esseri umani vissuti in momenti storici particolari e, proprio per questo, universali. Come la canzone ambientata a Granada alla fine della Reconquista nel XV secolo, quando gli spagnoli cacciarono gli ultimi arabi ed ebrei dall’Andalusia. Mi sono immaginato un musulmano che si domanda perché mai deve lasciare la sua terra e perché, improvvisamente, è diventato “un diverso”. Qui era nato, come suo padre, suo nonno, il suo bisnonno… Ti ricorda per caso qualcosa di quello che sta succedendo oggi in Palestina? Oppure, altro momento storico: la rivoluzione d’Ottobre in Russia: sicuramente ci sarà stato qualcuno che avrà creduto profondamente, generosamente, idealisticamente alle idee della rivoluzione aspirando a una giustizia sociale più equa. Invece nuovi zar, con la stessa arroganza, hanno continuato a tenere il popolo a testa bassa. Ho immaginato due ragazzi di allora che, vestiti di utopia, camminano sotto la neve lungo il fiume Neva a San Pietroburgo, sperando in un futuro migliore, ma vedono che già i presupposti non vanno in quella direzione…».

Anche la forma compositiva dei brani mi sembra che conservi lo stesso spirito da… istantanea.

«Eh, bravo! Per la scrittura della musica ho scelto la forma canzone, quella più sintetica; ovviamente sono le canzoni del Banco, si sente il prog, il rock, non sono simili a quelle dell’ultimo Sanremo, di sicuro! Essendo istantanee non aveva senso ricorrere, per esempio, a mini suite con cambi improvvisi di ritmo, sarebbe risultato fuorviante. La canzone è una forma di composizione fatta di due strofe, bridge, primo chorus, terza strofa, secondo bridge, secondo chorus e chiusura: tre minuti e mezzo, pam pam!».

Ultima domanda, e giuro che non è nostalgica! Come Banco del Mutuo Soccorso avete avuto la fortuna di crescere negli anni Settanta, nel mezzo di un fervore musicale senza pari, dal rock al prog, al jazz, ma anche nella pittura, letteratura, cinema, scultura, architettura e via elencando. Oggi che cosa esprime l’Arte?

«Non è mai accaduto che un’epoca che non avesse de valori profondi di rinnovamento, di cambiamento producesse grandi forme d’arte. Se abbiamo sentito, come abbiamo sentito,  Sanremo produce ed esprime il nostro tempo. Ed è un tempo dove stanno accadendo cose agghiaccianti: sentiamo il presidente della nazione più potente del mondo fare a gara con un pirata, se ti prendi l’Ucraina io mi prendo la Groenlandia e lo Stretto di Panama, l’Europa deve essere cancellata… Ormai non non si ha più pudore. Sembra tutto possibile, che caspita di musica vuoi che esca fuori?».

…Una musica senza pudore!

«Questi atteggiamenti però faranno i conti con quelli dei tanti come Vittorio Nocenzi, che pensano che il nostro dovere sia quello di stare dalla parte del bene contro il male, senza moralismi…  con le palle dure! Non si possono cancellare secoli di ricerca di civiltà, di equità sociale, di giustizia. Altrimenti torniamo direttamente alle caverne con le clave. Convieni su quanto sto dicendo?

Certo, convengo, come darti torto!

«Si sta lasciando alle alle spalle la decenza, non non ci si vergogna più di niente. L’oscenità è diventata un linguaggio quotidiano, normale. “Buongiorno/Vaffanculo”, è la stessa cosa. Dunque, che razza di arte ci aspettiamo? Se voglio continuare a fare l’artista, devo scrivere la mia musica e raccontare le storie che penso sia necessario raccontare. La musica non ha mai cambiato la realtà, è ovvio. Né ho mai pensato che la mia musica fosse unica. Ma che possa accendere riflessioni e punti di vista diversi per incoraggiare chi non è convinto di quanto sta accadendo a sentirsi meno solo e a cercare di contrapporsi, questo sì! La maggioranza silenziosa ha sempre fatto la storia, quella vera, il motivo per cui ho scelto di raccontare gli invisibili».

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