(fonte Tgcom)
Jazz in attesa delle Feste. Jazz che trae linfa dalla musica classica, provocatorio, usato per raccontare un conflitto o per aiutare a raccontare se stessi. Ci sono tre dischi usciti tra ottobre e novembre che mi sono piaciuti molto. Diversi tra loro, per modalità di approccio al genere e per svolgimento, ma comunque Jazz nell’anima: musica collettiva, condivisione, democrazia permanente, rispetto per l’altro, musica avida di conoscenza e di scoperta. Con questo spirito vi invito ad ascoltare questi tre lavori, usciti tra ottobre e novembre, nati dalla creatività di un trombettista israeliano, Avishai Cohen, di un pianista italiano, Francesco Venerucci, e di una violoncellista e cantante franco-algerina, Nesrine Belmokh.
1 – Ashes to Gold – Avishai Cohen – 11 ottobre 2024
Un lavoro nato e sviluppato durante il conflitto israeliano-palestinese. Il trombettista di Tel Aviv ha vissuto quei tragici momenti mentre stava lavorando agli ultimi ritocchi dei brani: “Ero nella piena follia del tempo di guerra, con i razzi che volavano sopra la mia testa, gli allarmi e le sirene che suonavano”, ricorda in una delle sue interviste. Fatti tragici – lui è uno di quelli che ha chiesto il cessate il fuoco a Gaza – che lo hanno riportato a riaprire i brani per farne un racconto compiuto contenuto in una lunga suite di 32 minuti, divisa in cinque parti, che “occupa” l’80 per cento del disco. Con la sua formazione, Yonathan Avishai al pianoforte, Barak Mori al contrabbasso e Ziv Raviz alla batteria, ha lavorato su quello che è, di fatto, un requiem che sembra procedere all’incontrario rispetto a quanto dichiarato nel titolo dell’album: non dalle “ceneri all’oro” ma dall’”oro alle ceneri”, alla distruzione, alla morte. La batteria suonata da Raviz narra di bombe e di esplosioni, la tromba di Avishai è come una spada che penetra e lacera per diventare poi dolcissima e quieta – ascoltate Ashes To Gold (Pt One). Il contrabbasso è un bordone costante, un rumore che sa di polvere e di morte. Da parte sua il pianoforte di Yonathan Avishai è il collegamento emozionale tra fiati e percussioni. In questa mezz’ora di tensioni, marce funebri, esplosioni di granate, missili, pianti si apre una speranza, che il musicista israeliano vede nell’Adagio Assai ripreso dal Concerto in Sol maggiore di Ravel (bellissimo pezzo!) che introduce all’ultimo brano, The Seventh, scritto al pianoforte dalla diciassettenne figlia Amalia. La speranza che saranno gli adolescenti a reagire a quest’odio assurdo, rispondendo alla guerra cieca e alla distruzione con la cultura e l’amore.
2 – Indian Summer – Francesco Venerucci – 18 ottobre 2024
L’impronta è classica, quella vena alla Chopin che si stempera, fine come un acquerello, in un jazz che non pretende di stupire con dialoghi complessi ma che lascia spazio all’armonia e alla melodia. Il passato “classico” del pianista romano è una delle costanti del suo incedere jazz. Disciplina che in questo lavoro di dieci brani per 54 minuti di ascolto esercita con la morbidezza e, allo stesso tempo, con il rigore di un linguaggio posato e sicuro. Grazie anche ai suoi compagni di viaggio, Javier Girotto, sassofonista di grande talento e fraseggio, Jacopo Ferrazza, morbido al contrabbasso, ed Ettore Fioravanti, puntuale ed efficace alla batteria. Tutti i pezzi sono stati composti da Venerucci che ha lavorato in modo da favorire la massima espressività nelle improvvisazioni di Javier Girotto. Il disco apre con I funamboli, brano ispirato, come racconta lo stesso artista, a Les Enfants du Paradis, film di Marcel Carnè del 1945, che risulta un dialogo giocoso e… funambolico in tre quarti tra pianoforte e sax. Si prosegue con un pezzo dal titolo fulminante, Il Tempo Stinge, con un’apertura affidata al solido Fioravanti e un’esecuzione di Javier Girotto al sax baritono dove riesce a far risaltare tutte le peculiarità di questo incredibile strumento. Tra melodie latin jazz come El Chiquirino e pezzi più legati a un incedere classico, vedi Le Stagioni, si arriva al brano che dà il titolo all’album, Indian Summer, con un vivace dialogo tra pianoforte e sax che riporta il pensiero a una struggente Buenos Aires. Bella Girotondo, un tempo latin dove il sax baritono di Girotto si diverte a “girare intorno” al brano coadiuvato dal basso incalzante di Ferrazza e dalla creativa batteria di Fioravanti. Nel suo progredire il brano diventa quasi un post bebop preparatorio a una gioiosa improvvisazione di Francesco. Chiusura inaspettata con il flauto magico andino suonato da Xavier che apre un’altra delle porte di Indian Summer, la World Music: Lament Song chiude in bellezza un felice lavoro.
3 – Kan Ya Makan (Once Upon A Time) – Nesrine – 1 novembre 2024
Nesrine Belmokh, violoncellista e cantante franco algerina è davvero brava. Una formazione classica – ha suonato in orchestre sinfoniche per anni – la musicista vede nel violoncello il suo alter ego che la segue come un’ombra. È la base della composizione per i suoi brani e per lanciare quella sua voce vellutata e misteriosa. Il suo ultimo lavoro raconta della sua vita, dei suoi incontri, della sua affettività. Lo traduce in numerose sfaccettature armoniche fissate nel pentagramma e in una narrazione, tra arabo e francese, che è una assoluta novità rispetto ai due precedenti album pubblicati. I brani sono stati scritti da lei con la collaborazione della madre, Leïla Guinoun, una medica pediatra di grande cultura. Come giustamente fa notare il sito Bandcamp l’artista è una Scheherazade dei nostri tempi, il suo album ha l’aura di un moderno Racconto delle Mille e una notte. Proprio da qui bisogna partire per ascoltare gli undici brani che compongono Kan Ya Makan. Il C’era una volta, identifica immediatamente quello che l’artista vuole raccontare. Una storia che mescola aspettative e realtà, ricordi e sogni. Il primo brano, Prelude, appena 37 secondi suonati da uno struggente violoncello, sembra introdurre un lavoro dal tono drammatico. Invece, nella canzone successiva, Ya Lil, Nesrine parte subito con un riff in arabo per poi passare al francese assumendo una voce dal tono “civettuolo” e sensuale. In Dunia, che significa “Vita”, racconta se stessa: La notte cancella la bruttezza e il cielo grigio/ E io… sono nata qui/ Ho aperto gli occhi, ho deciso di vivere/ Paura, sottomissione, abbandono, non sono per me, no…Il pizzicato degli archi in Bonnie e Clyde fissa invece una storia d’amore senza banalizzarla… Un bel lavoro, maturo, creativo, solido, grazie anche ai musicisti che hanno suonato con lei, Vincent Huma alla chitarra, Grégoire Musso al basso e tastiere, Anissa Nehari e Rhani Krija alle percussioni, e Paco Soler al trombone. Un disco da annoverare nella propria collezione.