a cura di Giusepoe Ceccato (fonte Tgcom)
Il mare visto da un’isola. Inteso come elemento fisico, è magnifico e pericoloso, l’autostrada che fa muovere da sempre commerci, popoli e culture – ne parlavo giusto settimana scorsa con Patrizia Laquidara. Il mare visto da un’isola parla di solitudine, impossibilità di relazionarsi, paura di lasciare un luogo sicuro per l’incertezza della vita.
Delle nostre insicurezze e di molto altro ancora parla il secondo album dei Fil Rouge Quintet (il primo, L’inconnue, autoprodotto, è uscito nel 2016) intitolato L’île Noir. Musica crossover, mediterranea, che sa essere leggera e struggente, ricca di spunti e di richiami jazz, da cui tutti i componenti provengono, ma con forti incursioni nella World Music, africana, mediorientale, latino americana e in quella classica, soprattutto la romantica Ottocentesca dei grandi pianisti dell’est Europa.
Manuela Iori, pianista e compositrice, e Maria Teresa Leonetti, autrice dei testi e cantante, sono l’anima dei Fil Rouge Quintet. Con loro, Charles Ferris (tromba e flicorno), Michele Staino, (contrabbasso) ed Ettore Bonafé, (batteria e percussioni, dai djembé e kalimba africani, alla tabla indiana, dalle congas cubane all’angklung indonesiano). I testi passano dall’italiano al francese con fluida sorpresa, come i ritmi e le fughe armoniche per garantire una freschezza continua ai sette brani che si susseguono in quasi un’ora di ascolto.
La canzone iniziale che dà il titolo al lavoro, L’île noir, parte con un contrabbasso suonato con l’archetto, strumento struggente, a cui si aggiungono il pianoforte, la voce e, quindi, la tromba e le percussioni: Toi, nouvelle aube à l’horizon / Moi, le soleil encore vivant / De l’île noire, une perle cachée / Mystérieuse et sans repère (Tu, nuova alba all’orizzonte/ Io, il sole vivente/ Dell’isola nera, perla nascosta/ Misteriosa e senza punti di riferimento), canta Maria Teresa. Nella seconda traccia Le villles cachées, è l’angklung suonato da Bonafè a partire e a preannunciare il pianoforte e la voce recitante di Maria Teresa (Occhi grandi e profondi/ Neri come le notti senza sonno /I vostri corpi/ Fluttuanti su un mare sconosciuto/ Nell’acqua nemica/ Calma e ostile al tempo stesso/ Piccoli bagagli / Per un lungo viaggio verso nord), intervallata da potenti litanie quasi gridate del griot senegalese Badara Seck. Si parla di migranti, di popoli in fuga, di morti rapiti dal mare che si ha il diritto – e dovere – di piangere.
Il disco prosegue con Tango Romanesco, dove a ricamare c’è il grande Javier Girotto, e via via con la danzante e affascinante Le vent de la mer, che tra ritmi latini e cambi progressive costruisce un percorso di oltre otto minuti d’ascolto con un assolo all’Hammond che si ricorda, a cui segue una versione, l’unica cover dell’album, di Aleksander Platz «omaggio alla bravura di Franco Battiato e di Milva», spiegano Manuela e Maria Teresa. Quindi La Sauterelle e, per finire, la Suite des promeneurs solitaires, 14 minuti e 53 secondi, divisa in quattro temi che riportano ai Quadri di una esposizione di Musorgskij.
Mi tolgo subito la curiosità: perché Alexander Platz, unica cover dell’album?
Maria Teresa Leonetti: «Innanzitutto volevamo inserire una cover che potesse essere organica al lavoro che stavamo facendo la prima del Fil Rouge Quintet. E poi, volevamo rivolgerci al mercato europeo, principalmente a quello tedesco, utilizzando un brano di un certo contenuto e spessore poetico. È un omaggio a un maestro come Battiato e, umilmente, a una delle grandi interpreti del brano, Milva».
Manuela Iori: «Lo abbiamo arrangiato alla maniera dei Fil Rouge. Sia nella ritmica, sono tutti tempi dispari, sia nell’arrangiamento, nella scelta della ricerca del suono in chiave nostra».
Infatti è coerente con il resto dei brani. Raccontatemi il progetto dell’isola e quella cavalletta che ricorre nelle immagini del cd, a cui avete dedicato anche una canzone…
Maria Teresa: «L’idea parte dal concetto di isola come rappresentazione della condizione umana. L’uomo è un’arcipelago composto da varie parti, isole, appunto. Il brano che dà il titolo al lavoro, L’île Noir parla proprio di questo, della solitudine, è una riflessione interiore, intimista. Partendo dall’idea dell’isola come uomo o parte di esso abbiamo pensato anche all’isola in senso figurato come luogo di approdo, porto sicuro, punto in cui aggrapparsi e salvarsi dalle vicissitudini della vita. In questo senso l’isola riunisce tutti quanti i brani del disco, cover inclusa. La Sauterelle (La Cavalletta) è un brano che parla dell’anima di una cavalletta. È l’anima di mia mamma che non c’è più e che mi si è ripresentata sotto forma di cavalletta baldanzosa e saltellante. Anche con il grafico (l’illustratore francese Zodanzo, ndr) abbiamo voluto inserire questo animaletto che è diventato un elemento grafico e vitale, simboleggia la vita, in questo caso l’anima di una persona che non c’è più fisicamente ma che è presente».
Chi o cos’è dunque l’isola?
Maria Teresa: «Una persona, oppure Madre Natura. Nella cover l’abbiamo raffigurata come una donna che esce da una roccia, ed è una donna roccia ma di carne viva, piena di vegetazione, vitale. Dentro l’album c’è l’immagine di questa figura che ha tra i capelli una natura rigogliosa».
Manuela: «Siamo in diversi ad avere una sensazione di smarrimento se guardiamo a quello che sta succedendo nel mondo. Ho due figli piccoli e spesso mi sale l’angoscia. L’altro dato è che siamo circondati da cose inutili. Nei social puoi passare in rapida successione dalla condizione dei migranti, alla guerra a Gaza, alle scarpe in vendita. In tutto questo caos serve qualcosa a cui aggrapparci, che ci salvi, dove custodire tutto ciò che davvero vale la pena avere con sé, facendo affogare tutto il resto da cui siamo purtroppo soffocati».
Come avete composto il lavoro?
Manuela: «I brani sono stati scritti in momenti diversi, ovviamente escono dagli ascolti e dalla musica che amo, da una parte il jazz e l’improvvisazione, dall’altra la World Music, avendo avuto l’opportunità di suonare con artisti del mondo africano e mediorientale. Poi c’è un altro elemento che a volte mi scordo di sottolineare, la mia formazione classica di base. Con moltissima umiltà ho cercato di far riecheggiare un po’ di Chopin ne La Sauterelle, oppure, nella Suite finale ho trovato ispirazione dai Quadri di una esposizione di Musorgskij, dove ci sono le famose Promenade, interventi musicali che si ripresentano. L’introduzione ricompare nella parte centrale sotto forma di rap… insomma è un gran mescolìo».
La Suite è il brano più lungo del disco, quasi 15 minuti, com’è nata?
Manuela: «Dal punto di vista musicale volevano essere dei quadri, ognuno con un carattere musicale diverso. L’introduzione dinamica, una sorta di fanfara, la parte rap e la ballad finale. Tutte le parti di improvvisazione si sono create durante le prove, quindi anche gli altri musicisti hanno contribuito tantissimo con la loro sensibilità musicale».
Maria Teresa: «I quadri sono quattro, quattro storie, quattro personaggi, passeggiatori, viaggiatori, solitari, storie un po’ tragiche. Il primo è quella di un bambino diventato angelo; quindi la vicenda di una signora elegante, sola e fragile nella sua malattia, arrivata in cielo su una carrozza di nuvole aranciate dalle luci del tramonto; poi c’è quella di una ragazza che si interroga sul senso della vita e, infine, una donna di mezza età ormai consapevole della caducità».
Perché l’uso del francese?
Maria Teresa: «Viene dal primo disco, una precisa scelta fatta con Manuela, nasce dal mio amore appassionato e inconsapevole per la lingua francese studiata per tanti anni. Questa volta abbiamo deciso di inserire anche l’italiano, che è comunque la nostra madrelingua. In alcuni brani ci piaceva l’idea del passaggio da una lingua all’altra. È spiazzante. Ne La Sautrelle ho inserito l’italiano tra una frase e l’altra in francese».
Canti anche una canzone in romanesco…
Maria Teresa: «Roma è la mia città: dopo aver vissuto a Firenze per studio sono tornata a casa. L’idea è stata di scrivere un tango in romanesco (sebbene addolcito) per parlare della mia infanzia. A quel punto abbiamo detto: “Chi si può chiamare se non Javier Girotto?”. Lui vive a Roma da tanti anni, per noi è stato un onore suonare insieme».
Nel secondo brano, Les villes cachées, c’è un altro fior di musicista, Badara Seck!
Manuela: «È stata un’emozione incredibile. È arrivato per pranzo nello studio di registrazione di Rita Marcotulli. Eravamo entrambe emozionate, abbiamo proposto a Badara di fare una breve prova prima di registrare, così siamo andati nella stanza del pianoforte e ci siamo messi a provare senza amplificazione. Quando lui è partito con quella potenza vocale e interpretativa è stata un’emozione fortissima. Tuttora, ascoltandolo, mi commuovo».
Questa è musica che si può definire “impegnata”, nell’accezione cantautorale del termine, suonata da musicisti. Perché, secondo voi, c’è sempre una grande difficoltà nel far diventare questi dischi mainstream come lo sono stati quelli dei cantautori negli anni Settanta?
Manuela: «Oltre a comporre insegno pianoforte, lavoro con i bambini. Loro sono abituati ad avere ogni cosa a portata d’ascolto. Quindi, tutto ciò che richiede più concentrazione e sforzo risulta difficile, ostico. E poi è solo il nostro secondo disco, il primo era autoprodotto, quindi non siamo nomi così noti…».
Maria Teresa: «Rifletto spesso, soprattutto dopo l’uscita dell’album, ma anche parlando e incontrando altri musicisti. Secondo me c’è una disabitudine all’ascolto della musica di qualità e dei contenuti. Mia mamma non aveva una grandissima cultura musicale ma sapeva a memoria le canzoni dei cantautori! Oggi non arrivano più musica e contenuti di qualità perché si privilegiano prodotti di facile fruizione che reggono solo il tempo di una stagione, usa e getta, creati a tavolino. Ultimamente anche la mia fascia d’età, i quarantenni, ha difficoltà a riconoscere la bellezza. A quel punto tutto il resto si autoelimina».
Manuela: «Poi ci sono i social, le visualizzazioni, i like… si guarda praticamente solo a quello».