(fonte Tgcom)
Jazzmandoit è il titolo di un lavoro uscito a fine dicembre dello scorso anno per PlayCab firmato da Kriss Corradetti. Marchigiano, chitarrista, producer, insegnante, Kriss ha scelto di portare alla ribalta il mandolino, strumento in Italia non frequentato quanto meriterebbe, “recluso” nella musica popolare, soprattutto in quella napoletana.
Il mandolino in altre parti del mondo è invece strumento sdoganato da tempo. Basti pensare al brasiliano Hamilton de Hollanda, virtuoso del bandolim, indirizzato a un jazz contemporaneo di grande vivacità contaminato con lo Choro, diventato uno dei grandi artisti internazionali nei circuiti e nei festival jazz di tutto il mondo. Musicabile s’è interessato a lui lo scorso maggio in occasione dell’uscita di un album divertissement dal titolo Flying Chicken (qui trovate il link all’intervista).
Quello di Kriss Corradetti è un lavoro composto da 14 brani che va ascoltato attentamente per due motivi: innanzitutto perché il musicista ha scelto di recuperare brani storici della musica italiana, composti, per esempio, da Nino Rota (vedi Amarcord), da Lelio Luttazzi (Il giovanotto matto) o addirittura da Carlo Innocenzi (Mille lire al mese del 1938), riscritti per mandolino. E poi perché ha aggiunto sapientemente brani composti da lui. Un mix ben riuscito, dove le differenze di età e stili acquistano una freschezza nuova. In questo mix c’è posto anche per il Blues, grande amore dell’artista, con un pezzo roots alla chitarra resofonica davvero notevole (Blues 4 Two).
Un disco che si discosta dai precedenti, cantautorali, di Corradetti, Si va dove si va del 2012 e The Wandering Seeker del 2022. Un omaggio alla musica italiana del Novecento e al mandolino, uno strumento versatile che andrebbe riconsiderato. L’ho contattato e ne nata una lunga quanto interessante intervista.
Come sei arrivato al mandolino?
«L’ho riscoperto da adulto nell’ambito di un mio percorso personale. Sono sempre stato molto attratto dalle musiche tradizionali, in particolare dalle musiche del Mediterraneo. Sono un chitarrista per caso, un compositore, un produttore. Praticavo già l’oud arabo e lo tzouras, il progenitore del bouzuki greco (strumento quadricorde, mentre il primo è tricorde). Mio nonno e mio zio paterno lo suonavano. Del nonno non ricordo molto, le storie della mia famiglia dicono che lo ruppe sbattendolo contro il muro in un furibondo litigio con mia nonna e lì finì la sua “carriera” di mandolinista».
Quindi, hai scoperto un mondo!
«La cosa che più mi ha colpito e un po’ toccato è stato vedere quanto di fatto ancora il mandolino in Italia sia poco considerato. Credo sia dovuto a un clima culturale sviluppatosi negli anni Sessanta del secolo scorso, con l’imitazione del mondo anglofono da un punto di vista di popular music. Tutto ciò che era tipicamente nostro è stato percepito come vecchio, folkloristico. Così il mandolino è stato relegato per i più alla musica napoletana, meridionale, dove è rimasto molto attivo come è rimasta viva, per fortuna, la chitarra battente. È stato comunque usato da musicisti ricercatori, tra questi Mauro Pagani che usò una mandola nei brani suonati con De Andrè. L’ha usato Pino Daniele che tra l’altro ha eseguito un bellissimo solo di mandolino su Putesse essere allero. Al di fuori di questi contesti abbiamo perso la consapevolezza di questo strumento tipicamente nostro e che deriva dall’oud arabo. In Brasile il bandolim è stato uno strumento vessillo della musica brasiliana e lo è tutt’ora. Loro hanno avuto Jacob do Mandolim, negli anni Cinquanta, un fenomeno. Anche noi abbiamo avuto dei mandolinisti che ci hanno invidiato nel mondo, uno per tutti, Giuseppe Anedda, il Paganini del mandolino italiano».
Questa considerazione sull’oblio della musica popolare me l’ha fatta un paio di giorni fa anche Jacopo Ventura, chitarrista dell’Ensemble Sangineto…
«Ha ragione. Tu considera che a metà anni Cinquanta in Italia c’era ancora una cultura tradizionale, agricola, non solo dal punto di vista economico ma anche di culture tradizionali. Pensa alle registrazioni sul campo che fece Alan Lomax, etnomusicologo statunitense: nel 1954 e ’55 fece un viaggio in Italia, accompagnato da un allora giovane Diego Carpitella, e registrò sul campo le musiche tradizionali delle varie regioni, che pubblicò in una collezione chiamata Italian Treasury, di una bellezza incredibile, dove vedi una quantità di tradizioni musicali peculiari diverse tra loro, ci sono delle cose in Liguria lontanissime da quelle fatte in Veneto, Emilia, Abruzzo o Sicilia. Tutto quel mondo lì è stato spazzato via. Un po’ per voglia di rinnovamento, un po’ da un modus operandi dell’industria discografica italiana che, a un certo punto, ha iniziato a ragionare per imitazione».
Sei un grande studioso della musica suonata a 432 Hz invece di 440 Hz…
«L’usanza di alzare la frequenza di intonazione è stata ed è tuttora praticata, molte orchestre suonano a 441, 443, perché si pensa che si possa avere più brillantezza. Nel passato non c’erano gli accordatori digitali, ci si accordava a orecchio, si può dunque fare una stima della frequenza generale, ci si è accordati anche a frequenze più basse di 432. In Francia la frequenza era 435 fino all’Ottocento, in Italia 432: erano le due preferite perché, per esempio, mettevano in condizione i cantanti di cantare con meno sforzo nelle parti virtuosistiche acute. La differenza si sente, a mio avviso, soprattutto per chi suona».
Spiega meglio!
«Per esempio, le corde sono un po’ più morbide, maneggevoli, sono 32 centesimi di tono di differenza, pochissimo, nemmeno un semitono».
Come ti sei appassionato?
«Avevo una formazione in musicoterapia, appresa con Mario Corradini, che aveva elaborato un sistema di biomusicoterapia evolutiva, con un approccio orientato alla centralità della persona e all’evoluzione. Un giorno ho deciso di provare, facendo un concerto in cui ero da solo, suonavo la chitarra e cantavo. La cosa che mi stupì fu la precisione con cui riuscivo a cantare in totale relax, come se le note da sole si incasellassero nelle altezze in cui dovevano andare. Da lì ho cercato delle risposte: è un ambito così vasto in cui purtroppo fai fatica a trovare qualcosa di riscontrabile e attendibile. Ai miei musicisti chiedo di intonarsi a 432. Oggi faccio dei concerti che chiamo Concerti evolutivi, dove lavoro sullo studio dei rapporti dei suoni, e cioè, quali intervalli usi, quali successioni sonore realizzi, una per tutte, iper dimenticata ma non dai grandi compositori, è la sequenza degli armonici».
Perché secondo te dimenticata?
«È una di quelle cose che si dà per scontata: nella didattica conservatoriale tradizionale si imbatte di più chi per esigenze strumentali poi ci deve fare i conti, vedi i trombettisti, è il loro medium di promozione del suono. Però rimane una nozione, e invece lì dentro anche dal punto di vista di un contenuto musicale, c’è l’essenza della musica, del perché l’armonia si radica e funziona in un certo modo. Noi usiamo comunque una selezione di frequenze che prendiamo per buona, ma in maniera scontata: le note nel sistema ben temperato sappiamo che derivano da una approssimazione matematica fatta nei secoli per permettere il trasporto tra le tonalità. È stata una grossa approssimazione perché, per esempio, seguendo la sequenza degli armonici, non avrai mai dei suoni coincidenti, un sol fondamentale non sarà mai uguale a un sol quinta di do, come era nell’intonazione nella scala pitagorica. Già questo dovrebbe porre delle domande e poi, di fatto, usiamo alcune frequenze nel mondo delle frequenze possibili. Già partiamo da una scelta operata a priori. Poi alla fine la musica passa comunque, ma in ambito accademico mi piacerebbe che ci fosse molta più attenzione per questo aspetto».
Se la sequenza armonica viene rispettata la avverte anche un non musicista?
«Assolutamente sì. È la base su cui si fonda la nostra percezione di consonanza o dissonanza tra i suoni. Quando ascolti un accordo maggiore senti una sensazione di perfetta consonanza dovuta al fatto che quelle note sono i tre armonici più frequenti nella serie della nota fondamentale. Così come, viceversa, quando senti un semitono, magari una nona minore, do-re bemolle, avverti una sensazione di fastidio, perché sono le due note che tra di loro hanno meno contenuto armonico comune. Pensa alla musica da film: il suono può stimolare determinate emozioni e questo avviene proprio manipolando sapientemente le relazioni tra i suoni. Nel famoso hit di archi, ripetuto e ostinato, del film Psycho di Hitchcock (colonna sonora di Bernard Hermann, ndr) hai una punta eccedente che è quella che ti crea quella dissonanza inquietante, così come nell’opening di Forrest Gamp hai un senso di leggerezza con la piuma che vola seguita dalla telecamera, espresso dalla melodia con archi suonati molto acuti che creano un drone… ».
Vieni dal pop-rock come ti sei avvicinato al jazz?
«In realtà l’ho tenuto nascosto: ho iniziato a suonarlo quando mi sono iscritto al conservatorio, a 20 anni. Venivo dal Blues quello rurale, sul quale avevo fatto molta ricerca musicologica. Ascoltavo già Miles Davis o Coltrane, ma solo suonandolo mi si è aperto un mondo. Poi l’ho messo da parte, concentrato sulla ricerca sonora, la musicoterapia, il counseling e la scrittura di canzoni: mi era rimasto come territorio i studio. Frequentando un master di secondo livello dell’università Roma tre che prevedeva sessioni pratiche a Bergamo al CBpM di Claudio Angeleri con grandi artisti, Trovesi, Intra, De Piscopo e Damiani c’è stato un ritorno potentissimo. Ho riscoperto gli amori che forse avevo messo nel cassetto da tempo. Da ognuno di questi artisti ho preso attitudini competitive illuminanti».
A proposito, come si pronuncia il titolo del disco?
«Tu lo hai scandito con Jazz man do it! Può essere pronunciato così, è un gioco di parole, in realtà la pronuncia esatta è Jazz mando it, cioè Jazz, mandolino, Italia. Quando ho cominciato ad appassionarmi al mandolino e decidere che ci potevo suonare anche jazz e altre musiche audiotattili, come le definisce il buon prof. Capolaretti, ho aperto un canale YouTube in cui ho iniziato a proporre video didattici, chiamandolo I, da cui il titolo del disco!».
Hai scelto brani che fanno parte della storia della musica italiana – Il giovanotto Matto di Luttazzi – e straniera – Libertango di Piazzolla – più altri di Blues suonati con la chitarra resofonica. Come hai deciso la scansione dei pezzi?
«Ho cercato di creare un percorso che sta tra due polarità, quella dei miei brani originali, per me importante, e l’altra per far notare quanto pezzi imparentati con il jazz, come Il giovanotto matto e Mille lire al mese, suonandoli capisci che sono stati scritti “all’italiana”».
La canzone in quanto tale è nata non a caso a Napoli… il bello è che si contamina tutto e poi, in un circolo virtuoso, ti ritorna indietro.
«Non tutti sanno che I got the blues, uno dei primi blues di cui abbiamo la partitura, dato alle stampe nel 1908, venne composto dall’italiano Antonio Maggio o che The Memphis Blues, brano composto da W.C. Handy e pubblicato nel 1911, fu arrangiato dal maestro di banda Edward V. Cupero, un italo-americano che aveva studiato al Conservatorio Reale di Napoli. Nel jazz c’è una pletora di musicisti, compositori, cantanti che hanno piena parentela con l’Italia. C’è da dire che, in quel territorio, però hanno prodotto della musica autenticamente americana. La cosa che mi interessava, invece, era far sentire come suona in un ambiente musicale jazz (che poi può essere o jazz manouche o jazz più tradizionale), una melodia tipicamente italiana, vedi Amarcord o E Cerca ‘e me capi’ di Pino Daniele. Le tinte sono poi andate verso le varie sfumature che possono essere quelle del Latin Jazz come Au Loin, o del Blues più scuro come Blues 4 Two. L’intenzione era quella di far sentire quanto la nostra musica più vecchia sia universale».
Lo hai registrato in quartetto…
«Sì, le chitarre le ho suonate io, poi ci sono Giacomo Lelli al flauto, il giovane contrabbassista Emanuele Di Teodoro e il batterista Massimo Manzi».
Perché 14 brani?
«Perché è il mio numero fortunato. Ha a che fare con una mia recente passione per la numerologia. Il 14 è una frequenza cinque, è un altro dei miei numeri fortunati, è il giorno di nascita di mio figlio, il numero a cui mia moglie è molto legata. Quando ho cominciato a registrare mi sono accorto di aver perso un brano, dovevo farne 14 assolutamente, così ci siamo accordati di registrare insieme un brano che ho scritto nella pausa pranzo sulla carta pentagrammata. Ci siamo bevuti un ottimo vino delle mie parti, il Morrigan (Rosso Piceno Superiore): ho fatto corrispondere una nota per ogni lettera del nome seguendo una particolare sequenza e così è nato Morrigan Blues!».