lunedì 30 maggio 2022

LE PAROLE GIUSTE

UN TOCCASANA PER IL BENESSERE

di Federico Mereta

Il tempo di comunicazione è tempo di cura. Si sente spesso questa frase, che ricorda l’importanza di un corretto rapporto tra chi cerca di aiutare una persona che soffre e il paziente. A volte però non si sta abbastanza attenti a questo aspetto, e così può capitare che magari si abbia la sensazione di essere considerati malati “immaginari” o magari di non essere considerati, anche solo a parole. In questi casi si possono avere reazioni apparentemente inspiegabili, proprio perché non ci sentiamo ascoltati, anche solo in termini di parole di risposta o di atteggiamenti che in qualche modo ci “fanno male”. Non usiamo a caso questa terminologia, proprio perché nel nostro cervello quando ci troviamo in condizioni di “scarso ascolto” o comunque riceviamo parole che non ci sembrano adatte per quanto stiamo vivendo, si può addirittura scatenare un vero e proprio dolore che arriva a ripercorrere quello fisico, sul fronte neurobiologico.

Ma cosa cosa succede a livello neurale quando la comunicazione medico – paziente non funziona? Quali effetti possono avere sul malato, parole dure o atteggiamenti non accoglienti? Una risposta viene da una ricerca condotta in Italia.

Attenzione alle relazioni che non funzionano

Lo studio sperimentale è stato condotto dalla Fondazione Giancarlo Quarta, Onlus – impegnata da anni nell’indagine del rapporto medico paziente dal punto di vista psicologico, clinico e sociale, con lo scopo di alleviare la sofferenza dei malati – in collaborazione con l’Università di Padova e il PNC (Padova Neuroscience Center). Dopo una prima ricerca che aveva misurato gli effetti a livello cerebrale di una comunicazione rispondente ai bisogni del malato gli esperti hanno voluto andare oltre. Con questo secondo lavoro, ancora una volta svolto mediante tecniche di neuroimaging (Risonanza Magnetica Funzionale), si è quindi messo a fuoco cosa succede nel cervello quando siamo in una relazione che non funziona. A 30 soggetti sani (11 maschi e 19 femmine di età compresa tra i 19 e i 33 anni) sono state sottoposte, in scansione cerebrale, una serie di vignette raffiguranti varie situazioni sociali di interazione tra due persone, nelle quali il soggetto riceve tre tipi di stimoli detti “rinforzo”: “rinforzo negativo”, in cui il comportamento dell’altro non risponde al bisogno del soggetto, “neutro/di controllo” e “rinforzo positivo”. I soggetti, oltre alla risonanza, hanno compilato due test di valutazione della personalità e affettività: il BFQ – Big Five Questionnaire e il QDF – Questionnaire on Daily Frustrations. Sono state valutate le risposte di attivazione, ovvero quali aree cerebrali risultano maggiormente attivate dagli stimoli negativi rispetto agli altri stimoli e le risposte di connettività, ovvero come dialogano (o non dialogano) le diverse aree del cervello quando c’è un rinforzo negativo e le correlazioni cervello-comportamento-personalità.

Subire un rinforzo negativo – la parola aggressiva, svalutante, che lascia insoddisfatti – è un’esperienza totalizzante, perché attiva, allo stesso tempo, aree del cervello appartenenti alle sfere cognitiva, emotiva e motoria. A livello di connettività tra le diverse aree del cervello, si è osservato che il rinforzo negativo attiva il network che percepisce ed elabora il dolore con aree sovrapponibili al dolore fisico: la parola negativa, dunque, ferisce. Quando la comunicazione non funziona, si è osservata un’attivazione delle aree motorie, come se il soggetto sentisse minata la propria integrità e fosse pronto a fuggire/reagire; non solo, la parola negativa favorisce un comportamento non sociale, evidenza riscontrabile a livello cerebrale con un minor dialogo tra i due emisferi del cervello.

Un occhio di riguardo per chi ha problemi cognitivi

La parola e il giusto linguaggio, insomma, possono aiutarci a star meglio. A volte anche quando la mente comincia a “sfuggire”, come può accadere ad esempio nelle fasi di depressione ed ansia che si accompagnano alle prime fasi di decadimento cognitivo. A sottolineare questo aspetto è una ricerca che ha messo assieme diversi studi sull’argomento, una “Cochrane Review”. Stando a quanto riportano gli esperti, gli interventi psicologici, basati fondamentalmente proprio sulla parola e sul linguaggio, sarebbero efficaci ed utili anche quando i farmaci per ansia e depressione non espletano come ci si attende la loro funzione e possono essere anche gravati da effetti indesiderati nel loro impiego. La parola può e deve diventare uno strumento di cura visto che chi affronta il decadimento cognitivo avrebbe il doppio del rischio di depressione di un pari età che invece non manifesta condizioni simili. Oltretutto depressione ed ansia possono anche aumentare la gravità del danno neurologico stesso, riducendo così l’indipendenza e aumentando il rischio di accedere all’assistenza a lungo termine. Inoltre i trattamenti psicologici per le persone con demenza in fase iniziale possono migliorare non solo i sintomi depressivi ma molti altri esiti, come la qualità della vita e la capacità di svolgere le attività quotidiane. Insomma: la giusta parola al momento giusto può aiutare, magari per aiutare a ricordare o a combattere l’umore cupo e le ansie in chi non è completamente lucido.

 

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