Mi è capitato sotto mano un libro che mi ha incuriosito: Bob Dylan, Sixty Miles of Ways, edito dalla piccola casa editrice indipendente romana Elemento115. Un testo breve, dalla scrittura densa, che si divora in poche ore. Soprattutto perché parla di un artista che non è più un essere umano, ma è asceso al cielo diventando una figura mitologica, una divinità nella trimurti della musica del Novecento, essere imprevedibile, furbo, ossessivo, caparbio, innovatore. Dylan è Dylan. Su di lui è stato scritto tutto e il suo contrario. Saggi, biografie, romanzi. Vi domanderete: c’era bisogno di un altro libro su di lui? Ho guardato gli autori, due trentenni. E mi sono domandato perché due giovani adulti, nati agli inizi degli anni Novanta, si fossero decisi a scrivere un libro su un artista-monolite, alla 2001: Odissea nello spazio per intenderci! Marta Fieramonti e Simone Pitti, romani, entrambi una laurea in lettere in tasca, hanno una passione solida per la musica. Anzi, per certa musica. Quella degli anni Sessanta e Settanta, periodo di grandi scontri e creatività, di rivoluzioni e innovazioni, di discussioni infinite e trip lisergici, di lotte contro il razzismo e le guerre… Marta ascoltando Dylan, Simone, De Andrè. Un libro scritto da giovani per i giovani. Dove si racconta in modo secco e preciso l’importanza della sua opera, senza fronzoli, in sette capitoli, coincidenti con altrettanti fondamentali accadimenti nella vita artistica e personale del menestrello di Duluth. Non solo musicale ma anche letteraria, visto che nella sua lunga carriera iniziata alla fine degli anni Cinquanta, Dylan ha vinto pure il Nobel per la Letteratura nel 2016.
Il 24 maggio, martedì prossimo, l’artista compirà 81 anni. Età ingombrante… Mi sembra doveroso ricordarlo attraverso questo libro e le parole di Marta e Simone, che ho raggiunto con una videochiamata alcuni giorni fa… Leggo testuale sulla terza di copertina: Marta, «cresciuta in una casa di malati di musica». Simone: «Fin da piccolo gli fanno compagnia le storie di un impiegato, il soldato di Samarcanda e il generale dietro la collina…». Come vi è venuta l’idea di scrivere su un personaggio così complesso e pieno di sfaccettature?
Marta: «È vero, i miei genitori hanno sempre frequentato concerti, hanno viaggiato per andare a vedere concerti e io con loro, fin da bambina. Perché Bob Dylan? Innanzitutto perché lo scorso anno ha festeggiato gli 80 anni d’età e i 60 di carriera, e poi perché è nei nostri interessi di studio, visto che ha vinto anche il Premio Nobel per la Letteratura. In Università si è discusso molto su come un musicista possa aver vinto un Nobel per la Letteratura. Secondo me non è così incongruente: l’Arte, in musica o in letteratura, è una cosa indivisa. Da lì abbiamo deciso di approfondire…».
Simone: «Sul Nobel non siamo d’accordissimo! Ci sono brani di Dylan che hanno una forza poetica indubbia. Però, valutando l’artista nell’insieme ci sono molti alti e bassi. Per me la letteratura deve essere un impegno che ti accompagna per tutta la vita. Dylan ha questi slanci di letteratura, si dà all’esplorazione musicale, segue le mode del momento…».
È un artista che non si è mai fermato solo alla musica: ha imboccato tante strade attraverso la musica…
Simone: «Vero, le mie sono solo osservazioni ma non un presa di posizione decisiva. Lo sto studiando ancora…».
Che lavoro fate, collaborate con l’Università, insegnate?
Marta: «Magari! Lavoro con tesi di laurea e insegno in un doposcuola, corsi di lingue. Ho fatto la triennale in lingue e la magistrale in editoria. Con alcuni amici del liceo da una decina d’anni abbiamo attivato un’associazione culturale dove insegniamo».
Simone: «Collaboro con una piccola casa editrice, anche se è davvero faticoso quel mondo. Però insisto, perché è quello che mi piace fare».
Come vi siete conosciuti?
Simone: «Alla facoltà magistrale: ci siamo messi a parlare di musica e abbiamo continuato a farlo! Poi con il doppio compleanno di Dylan ci è venuta l’idea di scriverci sopra. Per cercare di fare una biografia un po’ più… distaccata. Cercando, cioè, di non mettere l’artista sul piedistallo ma nemmeno di affossarlo. Il modo migliore per valutare un artista è attraverso le sue opere, evitando i sensazionalismi della vita privata. Cosa che lui stesso ha sempre tentato di fare. Voleva solo che si leggessero i testi e lo si valutasse per quello che aveva composto. È questo che mi piace di lui».
Marta: «Quando abbiamo deciso di scrivere eravamo molto spaventati. Dovevamo considerare 60 anni di carriera con una produzione enorme, frutto di una mente geniale, di un eclettismo infinito. Abbiamo capito che una biografia poteva lasciarci meno margine di errore: non avendo vissuto quel periodo, se non attraverso le parole dei nostri genitori, rischiavamo di dare un’interpretazione erronea del personaggio. Il format biografico, dunque, si sembrava quello più accessibile per chi, amatore, si sta avvicinando ora al mondo della scrittura dylaniana».
Dopo averlo studiato, ascoltato, scritto: che cosa rappresenta Dylan per voi?
Marta: «Un compagno e un esempio di vita. Dare rilevanza all’uomo Dylan, raccontare anche i dieci anni dove non ha più voluto scrivere perché entrato in una crisi profonda nata dal fallimento del suo matrimonio e, nello stesso tempo, prendersi tutto il tempo necessario per rimettere a posto i tasselli della sua vita per poi riuscire a tornare sul palco e riprendersi il successo, dà grande valore alla sua vita artistica e privata. E ancora: normalmente nessuno dà rilevanza al fatto che Dylan abbia avuto una crisi mistica e che per un periodo si sia avvicinato alla religione. Nessuno ricorda che Dylan si è dedicato tanto al teatro, uno dei suoi migliori amici era Allen Ginsberg e la loro vite e le loro arti sono andate di pari passo. Il Never ending tour che ha iniziato giovanissimo e non ha ancora terminato…».
Simone: «La senti? È innamoratissima!».
Siete praticamente figli del nuovo Millennio. Come vedete i lontani anni Sessanta e Settanta, le manifestazioni, le lotte, i Beatles, l’amicizia di Dylan con Harrison, il rock nel suo periodo più espressivo… C’è, oggi, per voi un nuovo Dylan o una nuova stagione di fermento culturale?
Simone: «Per osservare bene un movimento culturale ci vuole un certo orizzonte temporale. Lo potremo dire tra una decina d’anni. Al momento un cantautore come Dylan non c’è, o almeno io non lo vedo».
Marta: «Concordo! Penso che oggi di grandi cantautori ce ne siano veramente pochi. Mi viene in mente Joe Bonamassa, ma non è al livello di Dylan. È pur vero che nessuno ama il proprio tempo, verificheremo più avanti. Esistono realtà che possono essere interessanti. Non li amo, non mi piacciono, ma osserva i Måneskin: sono un gruppo che comunque, a 20 anni, ha deciso di riportare in auge il rock vero. Per quanto possano essere lontani da tematiche che io vivo, hanno deciso di prendere un impegno sociale, parlare di temi delicati e rilevanti come l’anoressia. E, sempre a 20 anni, hanno aperto il concerto dei Rolling Stones, che non è proprio una cosa che fanno tutti quanti. Un interesse per la musica “vera” ancora c’è, ma secondo me i giovani tendono a dire che è una musica vecchia, dunque non meritevole d’ascolto. È inconcepibile: sarebbe come dire non leggo un libro di un autore ottocentesco perché scritto in quel secolo. Prendi i Rolling Stones, sono anziani ma non significa che non abbiano più niente da dire. Nel 2016 sono stati i primi a suonare a Cuba, dopo la storica visita di Obama a La Habana… non hanno chiamato a suonare un quindicenne rapper…».
Simone: «Vabbè, sul palco sbagliano qualche nota, ma glielo si concede…».
La musica, soprattutto per i teenager, oggi è molto “limitata” nei testi. Si parla di ambiti molto personali, ma non si coglie una coscienza sociale…
Marta: «Credo che anche questo sia dovuto al crollo dell’educazione in Italia. Non si sa più scrivere, ma nemmeno più leggere».
Simone: «Non è solo un problema italiano, c’è un individualismo spinto in tutto il mondo occidentale».
Marta: «Nessuno riesce più a mettersi in relazione con la società, come se fossero due entità separate, non c’è la consapevolezza che la cultura, l’arte, i comportamenti li creiamo noi, come società».
Essere Bob Dylan nel 2022 e seguirlo ha ancora un senso?
Marta: «Sì, assolutamente sì! Dovrebbe essere studiato nelle scuole! Ma non soltanto lui… Prendi per esempio un De Andrè…».
Simone: «Ecco, brava, per me non ci sono confronti Anche se De Andrè si è ispirato a Dylan, presentando pure sue cover, lui regna supremo!».
Marta: «Si dovrebbe ridare importanza a questi artisti, approfittare di loro perché possiamo ancora vederli, goderli, ascoltare quello che hanno ancora da dire. Sicuramente Dylan ha perso centralità, anche se per me il suo insegnamento è ancora attuale».
Simone: «Più che centralità ha perso visibilità. Le sue tematiche sono senza tempo, dunque ancora attuali: vedi la lotta al razzismo o lo schierarsi contro ogni tipo di guerra».
I vostri coetanei, amici come hanno valutato il vostro lavoro?
Marta: «Gli amici tutto bene, alla fine uno si circonda di persone che hanno le tue stesse affinità…».
Simone: «Nel nostro gruppo c’è il test d’ingresso: se non conosci Dylan, De Andrè, il rock anni Settanta, meglio rimanere a una bella distanza!».
Marta: «Lo vedo con i ragazzi a cui insegno: ce n’è uno su dieci che conosce Bob Dylan. Quando hanno visto il libro si sono interessati, hanno chiesto, sono stati stimolati…».
Quali sono i vostri ascolti?
Marta: «Venerdì vado a vedere Eric Clapton, il biglietto ce l’ho da prima del Covid! Il 4 giugno sarò a Milano per ascoltare Elton John. Il mio gruppo preferito che ascolto sempre sono i Pink Floyd».
Simone: «Musicalmente parlando siamo in quell’area lì. Qualcosa di “contemporaneo” nei miei ascolti c’è: per esempio, i The Black Keys o Caparezza».
Continuerete questo filone?
Marta: «Sì, avevamo pensato a Lou Reed con i Velvet Underground e a David Bowie. Poi, come gruppi, i Pink Floyd!».
Simone (ride!): «Siamo umili!».