di Michele Antonelli (fonte Gazzetta dello Sport)
Il problema, all’inizio, era uno solo. "Non sapevo parlare l’italiano, per imparare qualcosa ci ho messo tre mesi. Comunicavo grazie ai gesti". Risata. "Qui tutti fanno segni per dire qualcosa". Najla Aqdeir esordisce così. Mamma marocchina e papà libico, è nata in Libia nel ‘94 ed è arrivata in Italia nel 2005: "A Milano. La mia famiglia cercava fortuna". Anche lei. E alla fine l’ha trovata di corsa, per mettersi alle spalle una vita di sfide, complicata dagli eventi. La fuga da un matrimonio combinato, la mancanza di libertà in casa, un tentativo di suicidio. Con la voglia di correre, nonostante tutto.
Il suo rapporto con la corsa comincia a scuola.
"L’Italia mi è entrata subito dentro, l’integrazione è stata immediata grazie all’ora di educazione fisica, in cui tutto veniva più semplice. Da lì ho fatto le prime gare, vincendo il titolo di campionessa italiana a livello campestre. Ero appena arrivata, dissi ‘Wow, è la mia strada. Spaccherò tutto e diventerò atleta’".
Qual è stata la differenza rispetto alla Libia?
"All’inizio è stato un po’ strano, in Libia non esiste il concetto di sport. Per correre, andavo ogni giorno a comprare il pane o le uova per mamma. Cercavo di metterci sempre meno, per ritoccare il mio record. Poi ho scoperto che è una cosa seria".
Come?
"Dopo gli inizi con la corsa campestre sono entrata a far parte di una società, l’Atletica Bracco. È stata fondamentale la guida di Roberto Gigli, il mio allenatore. Quasi un padre per me. Veniva a prendermi a casa, mi portava alle gare, si preoccupava che tutto fosse ok. I miei genitori non sono mai stati troppo coinvolti nel mio amore per lo sport. Volevano che corressi in un certo modo, coperta. Niente t-shirt e pantaloncini, era vietato lo stile occidentale. Mi lasciavano continuare solo perché c’era lui".
Fino ai campionati italiani di società, a 14 anni.
"Mio padre non guardava la tv italiana, quel giorno per caso finì sulla Rai. Vide la mia gara, arrivai seconda".
Senza festeggiamenti.
"Il premio al ritorno a casa fu uno schiaffo. Avevo gareggiato in top e pantaloncini, una vergogna per lui".
Qualche tempo dopo, un viaggio in Marocco le ha cambiato la vita.
"Avevo 16 anni. Fu organizzato all’improvviso da mia madre e accompagnato da un’attesa incredibile. Di solito, almeno fino al nostro arrivo in Italia, andavamo in vacanza dai nonni in Marocco, ma all’inizio non fu possibile anche per problemi economici. Mia madre, stilista, dovette reinventarsi tra lavori diversi. Quindi partimmo e all’arrivo scoprii che per me c’era un matrimonio combinato con una persona mai vista. Chiamai il mio allenatore. Insieme a don Samuele, parroco dell’oratorio che frequentavo, mi comprò un biglietto per tornare a casa".
E poi?
"Riuscii a scappare il giorno del matrimonio. A casa, all’inizio, ero sola con papà, che venne a riprendermi all’aeroporto accompagnato da don Samuele. Poi tornò anche mamma e fu un problema, la situazione divenne ingestibile. Non solo mi vietarono di correre, ma di fare qualsiasi cosa. Mi picchiavano, non sapevo cosa fare. Avevo bisogno di aiuto ma nessuno mi ascoltava. Tentai il suicidio, andai in coma farmacologico per cinque giorni".
Dalla ricerca della libertà all’isolamento.
"Restai in ospedale per qualche settimana. Poi entrai in una comunità di recupero per tre mesi, in totale protezione. Un paradosso. Potevo uscire solo la domenica, in pullman. Ricominciare fu difficile, ma pian piano tornai a correre. Non per andar forte, ma per star bene. Dopo anni di vittorie, iniziai ad arrivare ultima e a cadere sugli ostacoli, ma ero felice così".
È passata attraverso diverse specialità.
"Quattrocento ostacoli, ottocento, tremila siepi. Il mezzofondo resta la mia preferita perché ho messo insieme le distanze lunghe e gli ostacoli, che mi hanno cambiato la vita e dato la forza di andare avanti".
Nel frattempo il lavoro…
"Donna delle pulizie, commessa, cameriera, animatrice nei centri commerciali. A un certo punto diventò una sfida. Dovevo dimostrare ai miei genitori che ce la stavo mettendo tutta per diventare qualcuno, per realizzare il mio sogno".
… e un problema di carte.
"Per ciò che è successo sono stata rifiutata dallo stato libico e dalla mia famiglia, trovandomi a chiedere asilo politico dopo 10 anni in Italia. Mi è stato riconosciuto il sussidiario per continuare a gareggiare e viaggiare, ma dopo 5 anni di permesso di soggiorno è scaduto il passaporto. Ho dovuto richiedere quello libico, ma in Italia non è stato possibile farlo. Così sono andata a Marsiglia, ma c’era un errore di una lettera nel mio nome, quindi nulla di fatto. Ora non sono più Aqdeir Najla, ma ho un nome che sembra un papiro. Non sto gareggiando perché non posso nemmeno ottenere l’idoneità medica…".
Oggi chi è Najla?
"Grazie allo sport racconto la mia storia con un sorriso, nonostante tutto. E sono fiera di me. Volevo portare la corsa dove non era ancora arrivata e l’ho fatto con ‘Playmore!’, grazie a cui alleno persone con o senza disabilità. Lavoro nei centri psichiatrici, in comunità di ex tossicodipendenti, aiuto ragazzi autistici o non vedenti portandoli a correre. Poi, grazie alle Flying Girls Milano, la mia crew di donne fondata anche grazie a Nike, di cui sono coach, sono un’immagine del running in città. Cerco di far capire che la corsa può salvare la vita".