di Daniela Rabia
Prefazione di Francesco Cuteri
Mi capita spesso, prima di entrare nella stanza di Bruno, di bussare con delicatezza. Attendo qualche istante, lascio parlare il silenzio, replico con il mio e, seppur nella certezza che nessuno mi risponderà, ci riprovo sempre; è diventato quasi un rito, come se questo gesto potessero riportare in vita ciò che è stato. La stanza è rimasta sempre quella. Poche le cose spostate, alcune andate via, in una divisione fraterna di reliquie. Ma mia madre in quella stanza non ci ha mai più rimesso piede, e ci raccomanda sempre di assicurarsi che la porta sia ben chiusa. Non reclama spiragli. Non vuole che lo sguardo si posi dentro neanche per sbaglio, non desidera tornarci e anche se la tapparella è alzata la stanza rimarrà per sempre colma di buio e di dolore. Ci sono alcune cose che per lei sono incomprensibili, profondamente, e tra queste il modo improvviso in cui suo figlio se n’è andato: l’averci parlato pochi istanti prima e poi il silenzio. Quell’aver detto vado a sdraiarmi un attimo per non rialzarsi mai più. Non si dà pace, neanche adesso che son passati alcuni anni.
Per gli uomini il tempo è un amico, per le madri no. Per le madri che hanno perso un figlio il tempo è indifferente, non scalfisce neanche per un istante, o la scalfisce appena, quella corazza di sofferenza che le avvolge. Ne parliamo spesso, e a volte accanto a lei mi sento un traditore, per essere riuscito a trasformare, non sempre a dire il vero, il dolore in dolcezza, il ricordo in presenza, quell’ultimo abbraccio in una stretta di sempre. Metà di me è andata via, ne sono consapevole, ma ne ho tratto insegnamento, ho messo in atto un diverso modo di vivere, di essere me stesso. Ne parliamo spesso, e quando le chiedo di essere forte mi risponde: Ma io sono mamma, lo capisci? E con questa espressione scandaglia le profondità dell’abisso che separa me, fratello, da lei, madre. Mamma. Immobile, seduta nella conca di una poltrona, scorre la vita dei figli, di chi c'è e di chi manca all'appello, e s'interroga. Consapevole che la pace ha un alto prezzo, che mai si smette di pagare, e che il silenzio non sempre è un dono. A volte è sinonimo di vuoto. I giorni però si susseguono e lei va avanti con tenacia; la fede diventa luce, stampella, conforto, e trova consolazione nella preghiera. In quella preghiera che ogni giorno rivolge a una Madre speciale; una Madre che ben prima di lei è stata trafitta dal dolore per la perdita del Figlio, inchiodato mani e piedi al legno di una croce. La preghiera diventa allora condivisione della sofferenza, sostegno: c’è un’Addolorata che ne consola un’altra, che sussurra dolcemente parole di speranza. Leggere il libro di Daniela non è stato semplice, ho dovuto procedere a passi lenti, fermarmi spesso a riflettere, a riprendere il respiro, sopraffatto dalle emozioni, costretto a pensare alla profondità di quanto veniva narrato; a come il dolore possa sgorgare da più luoghi, come una sorgente perenne, e scorrere a volte in maniera impetuosa nelle nostre vite. A come, però, un sorriso, un abbraccio, una presenza, un sostegno possano farsi diga, sbarramento. Ho camminato, quasi fossi anch’io una madre, tra lame taglienti e frammenti di vetro disseminati lungo il percorso delle esistenze, per comprendere come i ricordi possono essere fasciatura per i piedi ma anche chiodi, schegge di metallo. Daniela ha preso in considerazione tutte le possibili sfumature del soffrire, i comportamenti, le infinite proiezioni della memoria, che nella perdita assumono forme maniacali. Ci si appiglia a tutto e si ripensa a tutto. Ogni cosa diventa ossessione, un magnete potente al quale sembra impossibile sottrarsi.
E tutto ciò mi ha fatto pensare ad altre madri ed a come siano cambiate di colpo le loro esistenze. A Carla, che ha perso la sua Simona nello sfiorire quotidiano della speranza e che non salta un giorno nel portar fiori nel luogo del riposo; a Lisa, che vive una non vita, trafitta ben due volte a distanza di pochi anni dalla perdita di Diletta e Irene; a Carmela costretta a trasformare il capodanno nel giorno di commiato da Stefano; a Mariaconcetta, che ha ancora negli occhi le indicibili sofferenze di Emilia, ma anche la sua bellezza. La loro dolcezza è infinita, quanto la sofferenza che le accompagna, e non è facile comprendere come riescano a sopportare tanto peso. Daniela si muove lieve nel suo raccontare e affronta un tema così delicato con profonda sensibilità. Si immedesima così tanto nella madre da riproporne il respiro, spesso gli affanni, con straordinaria intensità; è come se avesse raccolto mille esperienze per narrare quanto narra. Daniela, insomma, ci parla del buio, ma tiene accanto a sé una lanterna. Ci offre uno spiraglio di vita, di speranza.